La Commissione De Marchi aveva ragione.

Convegno ANCE

Quindici giorni orsono ho scritto su questo blog un lungo post (”La Commissione De Marchi: un’occasione mancata”) nel quale ricordavo le conclusioni alle quali giunse nel 1970 la Commissione interministeriale De Marchi, istituita a seguito dei catastrofici eventi di dissesto idraulico ed idrogeologico del 4 novembre 1966 (alluvione di Firenze ecc.).

Ieri, 29 novembre, si è svolto a Roma un convegno organizzato dall’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) nel quale è stata presentata un’ampia ricerca realizzata dal CRESME: Rapporto sullo stato di rischio del territorio italiano 2023.

Nel Rapporto CRESME ho trovato molti dati assai interessanti tra i quali estraggo due aspetti che coincidono perfettamente con le conclusioni della Commissione De Marchi e con le mie considerazioni a margine.

1) Il primo riguarda il problema delle competenze in materia di difesa del suolo. Di seguito ho riportato quanto affermato dalla De Marchi (in grassetto) ed il mio commento (in corsivo), seguito da quanto riportato dal CRESME.

La difesa del suolo e del territorio è compito precipuo e di esclusiva spettanza dello Stato e richiede unità di direttive per l’intero territorio nazionale, ma occorrerà la collaborazione anche delle altre istituzioni locali e dei privati. No allo spezzettamento tra le Regioni.

In realtà proprio nel 1970 nacquero le Regioni che rivendicarono proprie competenze in materia di difesa del suolo. Questo diede certamente luogo ad un certo “dissesto istituzionale” e ad una confusione nelle competenze che dura tutt’oggi e che è tra le cause del dissesto fisico del territorio.

Innanzitutto il momento storico-istituzionale che vide la nascita e l’attività della Commissione non era dei più propizi: l’esigenza dichiarata di mantenere in capo allo Stato centrale le principali competenze (e responsabilità) sulla difesa del suolo, si scontrò con la nascita delle Regioni che rivendicarono ed ottennero significativi poteri.

Ciò accrebbe la confusione e la mancanza di coordinamento in una materia complessa: la stabilità ed il consolidamento del territorio dipendono infatti da molteplici opere (idrauliche, idraulico-forestali, idraulico-agrarie, forestali, di bonifica e scolo ecc.) per ciascuna delle quali esiste una normativa che prevede la competenza di molteplici soggetti istituzionali (Stato, Regioni, Province, Comunità montane) e relative strutture tecniche. Inoltre un ruolo importante hanno anche i privati proprietari dei terreni in collina e montagna ed in pianura, attraverso l’attività dei Consorzi di bonifica montana e di pianura.

ANCE – CRESME Rapporto sullo stato di rischio del territorio italiano 2023

Intervenire sulla governance riportando ad un unico soggetto a livello centrale il coordinamento delle varie istituzioni coinvolte.

2) Il secondo riguarda la spesa che La Commissione De Marchi riteneva necessario spendere con continuità per un trentennio allo scopo di mettere in sicurezza il territorio nazionale, corrispondente a 3 miliardi di € all’anno. Tale cifra è inferiore a quanto ha speso lo stato italiano per riparare i danni dovuti al disseto idrogeologico (calcolo del CRESME) senza considerare il sacrificio in vite umane.

De Marchi: La previsione di spesa ammonta ad un totale, per il trentennio, di poco meno di 9.000 miliardi di £, somma che attualizzata ad oggi corrisponde a circa 90 miliardi di €. (3 miliardi all’anno).

Va rilevato che tali cifre comprendono anche le spese di manutenzione delle opere, che la Commissione giudica estremamente importante.

Commento mio: Altra raccomandazione rimasta lettera morta.

Per concludere (anche se molto altro ci sarebbe da dire) vorrei segnalare lo squilibrio tra la spesa prevista dalla Commissione nel trentennio 1970-2000 per la messa in sicurezza del territorio nazionale (90 miliardi di € attualizzati, pari a 3 miliardi all’anno) e la cifra prevista per riparare i danni causati dall’alluvione in Emilia Romagna del maggio 2023: 9 miliardi

Rapporto CRESME: Negli ultimi 20 anni l’Italia è stato il maggior beneficiario del Fondo di solidarietà dell’UE, con oltre 3 miliardi di euro ricevuti, pari a circa il 37% dell’importo totale erogato a 28 Paesi europei (8,2 mld).

NEGLI ULTIMI 13 ANNI TRIPLICATA LA SPESA PER I DANNI DA ALLUVIONI

In Italia dal 1944 a luglio 2023 si stimano danni prodotti da terremoti e dissesto idrogeologico per 358 miliardi di euro a valori 2023.

Tra 1944 e 2009 si sono spesi mediamente 4,2 miliardi di euro all’anno mentre dal 2010 sino ad oggi la spesa è salita a 6 miliardi di euro.

La spesa per riparare i danni degli eventi sismici è rimasta sui livelli storici (circa 3 miliardi l’anno), mentre è triplicata quella del dissesto idrogeologico passata da una media di 1 miliardo all’anno a 3,3 miliardi.

Sa danni da dissesto idrogeologico

1944-2009 66 miliardi 1 miliardo all’anno

2010-2023 46 miliardi 3,3 miliardi all’anno

La casa si è riaperta

In un recente post del 10 ottobre scorso (Una casa disabitata) esprimevo il mio rammarico per il fatto che dal 2021, quando venne istituita da Comune, Università, Chiesa cattolica, Comunità islamica ed ebrea, la Casa del dialogo fra culture e religioni, non ci fosse stata alcuna iniziativa.

Ora apprendo con gioia di questa iniziativa, di estrema importanza in questo tempo di guerra e di odio.

Martedì 5 Dicembre alle 18 “Pace Salam Shalom - fermate le armi, no alla catastrofe umanitaria” fiaccolata da piazza San Francesco a piazza Santo Stefano con Raffaella Bolini, Alessandro Bergonzoni, Matteo Zuppi, Yassin Lafram, Daniele DE Paz (dichiarazione interreligiosa congiunta), Matteo Lepore.

La Commissione De Marchi: un’occasione mancata

Frana in Appennino

A 57 anni esatti dal tragico evento di pioggia che il 4 novembre 1966 causò l’allagamento di Firenze e l’alluvione e le frane che devastarono tante città ed aree del nostro paese, si è verificato, il 4 novembre di quest’anno, un nuovo disastroso evento che ha colpito in particolare la Toscana. In questi 57 anni non si contano gli altri disastrosi fenomeni meteorologici che hanno causato danni devastanti e numerose vittime: i più recenti nello scorso maggio in Romagna, ma come dimenticare Sarno, Soverato ecc. ecc. Dopo ognuno di questi eventi spesso catastrofici per persone e beni, i responsabili politici dell’epoca ripetevano il solito “mantra”: “L’importante è fare prevenzione, si spenderebbero meno soldi (a parte le vittime che non hanno prezzo) di quello che siamo costretti a spendere per rimediare, sia pure in parte, ai danni causati da queste calamità”. Naturalmente a queste dichiarazioni non seguivano mai i fatti e si è sempre continuato così. All’ evento successivo magari si scambiavano le parti: chi era prima al governo ora era all’opposizione ma le dichiarazioni erano sempre dello stesso tenore, così come i comportamenti successivi restavano segnati dalla medesima inattività ed incoerenza.

Mi è tornata in mente ancora una volta la Commissione De Marchi e sono andato a ricercarmi in internet gli Atti della Commissione. Li ho ritrovati. Sono in tutto 3000 pagine. Naturalmente non le ho lette tutte. Mi è bastato scorrere le parti fondamentali della Relazione conclusiva.

Ma che cos’è la Commissione De Marchi? Continua…

Una casa disabitata

I firmatari dell'accordo

Nell’aprile 2021 nacque a Bologna la prima ‘Casa del dialogo tra religioni e culture’, “uno spazio in cui “comunità religiose, società civile e agenzie culturali” saranno chiamate a collaborareper un integrale progresso umano, sostenibile e condiviso”. Venne firmata un’intesa tra il sindaco Virginio Merola, il rettore Francesco Ubertini, l’arcivescovo Matteo Zuppi, il rabbino capo Alberto Sermoneta, il presidente della Comunità ebraica Daniele De Paz e il numero uno della Comunità islamica Yassine Lafram. L’accordo rimaneva aperto alla sottoscrizione anche da parte delle altre confessioni religiose presenti a Bologna, che “ne condividono le finalità e gli obiettivi e che intendono collaborare al loro raggiungimento”.

In queste ore drammatiche mi sono ricordato di questo fatto che a suo tempo suscitò molte attese.

Non ho memoria di iniziative che la “Casa del dialogo tra religioni e culture” abbia assunto in questi due anni e mezzo. Sul sito del Comune di Bologna non ne ho trovato traccia alcuna. Il sito della Diocesi si limita a ricordare l’evento.

Ora so bene che in un momento di crisi acuta come quello che stanno vivendo oggi israeliani e palestinesi, parlare di una “Casa del dialogo” appare fuori dalla realtà, e tuttavia penso che i soggetti che decisero di edificarla debbano porsi il problema di abitarla, appena possibile.

P.S.

Mi è sembrato opportuno trasmettere il testo di questo post a mons. Zuppi e a don Ottani.

Il segretario del cardinale mi ha risposto così:

Buongiorno Paolo,

ho trasmesso la tua email al Cardinale che mi ha detto di farti sapere che, effettivamente, a parte la firma del protocollo e gli accordi tra le religioni interessate, tutto si è fermato e non si è mai fatto nulla.
L’incaricato per la nostra diocesi era don Stefano Ottani, ma non è mai stato contattato.
Hai ragione, sarebbe bene, almeno, tenere presente l’esistenza di una realtà del genere a Bologna.
Saluti.
don Sebastiano

A Bologna c’è un problema

Nella classifica del Sole 24 Ore sulla criminalità, su 106 province italiane, nel 2023 Bologna è al 4° posto assoluto per numero di denunce dei diversi reati rispetto alla popolazione. Sul podio troviamo Milano, Rimini e Roma.

Negli ultimi cinque anni Bologna è sempre stata quarta salvo nel 2021, quando era seconda.

I punti deboli della nostra provincia sembrano essere le violenze sessuali (2°), percosse (2°), furti (6°), rapine (8°), delitti informatici (5°), ed

estorsioni (4°).

Nelle violenze sessuali dal 2019 al 2023 Bologna è sempre stata nei primissimi posti, nel 2020 addirittura prima.

Ancora sul libro del generale Vannacci

Ieri su La Lettura, supplemento domenicale del Corriere della Sera, sono stati pubblicati, come di consueto, i dati delle vendite dei libri nella settimana precedente.

Ciò che mi ha colpito non è soltanto il fatto che il libro del generale Vannacci “Il mondo al contrario” è ancora, dopo diverse settimane, il libro più venduto, ma che è ancora stabile nelle vendite e, soprattutto, ha venduto quasi il doppio di tutti gli altri 9 volumi della top ten messi insieme, testi di saggistica e narrativa italiana e straniera.

Ciò che sconcerta è che questo successo strepitoso non è dovuto a recensioni positive sulla qualità letteraria del libro ma soltanto alle polemiche suscitate dai suoi contenuti ed alle relative ricadute mediatiche (articoli, interviste ecc.).

Non saprei dire se siano di più coloro che hanno acquistato il libro per trovarvi conferma delle proprie opinioni, per curiosità o per trovare conferma alla propria indignazione.

Quello che so per certo è che non comprerò il libro: mi bastano le anticipazioni che sono state pubblicate per dire che non condivido in alcun modo il Vannacci-pensiero.

Un’amica a proposito del generale Vannacci

Vannacci ed il suo libro

Una cara amica mi chiede di ospitare su questo blog (ormai, credo, per pochi intimi) alcune sue riflessioni sulle affermazioni del generale Vannacci.

Lo faccio con piacere, anche perché le condivido pienamente.

Sono consapevole che sull’argomento si sta parlando fin troppo e forse parlando gli si dà troppa importanza, ma di fronte a certe cose non è possibile tacere.

Premetto che non ho letto il libro e probabilmente non lo leggerò. Premetto anche che non voglio entrare nel merito del dritto o meno di esprimere le proprie idee per chi riveste incarichi di responsabilità e che  volutamente mi astengo dal commentare tutte le affermazioni riguardanti gli omosessuali, le femministe, ecc… sulle quali pure ci sarebbe tanto da dire.
Intendo solo riflettere su una delle affermazioni di Vannacci:
“… i tratti somatici della Egonu non rappresentano l’italianità”.
Mi viene spontaneo chiedere se forse mettendoci davanti ad una fotografia dello stesso Vannacci, ovviamente in abiti borghesi, sapremmo dire se l’uomo sia italiano piuttosto che francese o russo o statunitense? I tratti somatici saprebbero dirlo?
Che cosa vuol dire per il generale Vannacci rappresentare l’italianità?
Io mi sento italiana perché sono nata e soprattutto cresciuta in questo Paese, perché parlo la lingua di Dante, perché considero casa mia questa Terra meravigliosa e ricca di bellezze naturali e di opere d’arte, perché ne amo la musica, il cibo,…. perché sento in me radicata la cultura italiana e condivido i valori della migliore Costituzione al mondo, per la quale molti dei nostri padri hanno versato il sangue, affinché anche un Vannacci potesse esprimere liberamente le proprie idee, perché questa è democrazia.

Allora sorge spontanea la domanda su cosa abbia a che fare tutto questo con il colore della pelle, con i tratti somatici!
Una affermazione del genere rappresenta, secondo me, un insulto:
a tutti i cittadini italiani nati da un italiano e da un genitore di un altro Paese, del quale ovviamente portano una ricchezza culturale oltre ad alcuni (più o meno marcati) tratti somatici;
a tutti i nostri figli adottivi italiani, che abbiamo generato, non nella carne ma nel cuore, e che appartengono in tutto alla nostra cultura e in tutto ci somigliano, nonostante i tratti somatici;
ai figli e nipoti di migranti di seconda e terza generazione, i cui genitori o nonni hanno scelto di vivere in questo Paese, contribuendo col proprio lavoro a costruire il futuro per tutti.
Certo, perché come disse il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, parlando di migrazioni e facendo riferimento al nostro passato, quando era l’America la meta dei nostri migranti:
Oggi, per loro, noi siamo l’America: e noi, come l’America abbiamo bisogno di immigrati per crescere ” (Carlo Azeglio Ciampi, Bologna, 2 febbraio 2000).

Allora mi vorrei rivolgere al generale Vannacci, che tiene tanto all’italianità che ha orgogliosamente rappresentato nelle sue missioni di pace all’estero, dicendo:
“Caro generale,
anch’io tengo all’italianità fatta di valori, di cultura, di ricchezza di un patrimonio artistico, storico e naturale; anch’io voglio preservare e valorizzare questo prezioso patrimonio. E voglio preservarlo e valorizzarlo per consegnarlo agli italiani futuri QUALSIASI SIA IL COLORE DELLA LORO PELLE.
Francesca Netto Censoni

I trasferimenti dei parroci

L'arcivescovo Matteo Zuppi

Il legame che si crea tra una comunità parrocchiale ed il presbitero che svolge in essa il ministero di parroco è sempre un legame assai stretto, che si consolida con il passare degli anni e che presenta risvolti umani e spirituali importanti.

Il trasferimento del prete ad altra/e parrocchia/e spezza questo legame e rappresenta un momento delicato e spesso non privo di conseguenze sia per la persona del prete sia per i singoli parrocchiani e per la comunità nel suo insieme. Lo dico sulla base di esperienze che ho vissuto direttamente o di cui sono stato reso partecipe da amici e conoscenti.

Col passare del tempo di solito le situazioni si riassestano: la comunità parrocchiale ed il nuovo parroco trovano un loro equilibrio pastorale, anche grazie alla eventuale presenza dei ministri istituiti che rappresentano un elemento di continuità e di memoria storica della tradizione di una parrocchia di cui il nuovo parroco, se è saggio, non potrà non tenere conto, soprattutto all’inizio del suo nuovo ministero. Una parrocchia infatti, con il passare degli anni, matura una propria identità a cui hanno concorso i presbiteri che si sono succeduti ma che è di fatto alimentata e custodita dai fedeli laici.

Ma non è sulle diverse reazioni positive o negative, di soddisfazione o di disagio che possono toccare le singole persone in occasione del trasferimento di un parroco che intendo soffermarmi, ma sulle modalità con cui questo trasferimento di norma avviene.

Da quanto mi risulta tali modalità da sempre consistono in un colloquio tra vescovo e presbitero interessato, nel quale viene comunicata la nuova destinazione ed in una comunicazione che il parroco uscente fa alla sua comunità.

Mi sono sempre chiesto (senza avere una risposta) Continua…

Il comune di Bologna, i cambiamenti climatici e la transizione energetica.


  1. Il PAESC.

Nell’aprile del 2021, cioè oltre due anni orsono, il Consiglio comunale di Bologna approvò il Piano d’Azione per l’Energia Sostenibile e il Clima (PAESC), un importante strumento di programmazione che ha lo scopo di rendere la città più adattabile ai cambiamenti climatici e climaticamente sostenibile.

L’obiettivo del Piano è la definizione delle azioni necessarie per raggiungere la decarbonizzazione nel 2040 – traguardo che l’Unione europea pone oggi al 2050 – ma si prefigge anche un proposito di medio termine.

Le azioni del PAESC arrivano a considerare uno scenario al 2030 che, attraverso le tecnologie già oggi disponibili, consente di arrivare ad una riduzione delle emissioni di CO2 del 44%, pari a oltre 500 mila tonnellate di anidride carbonica ogni anno.

I protagonisti di questa transizione saranno il Comune, gli altri enti pubblici e gestori di pubblici servizi, il mondo produttivo e i singoli cittadini; sarà infatti anche l’azione dei singoli che permetterà alla città di rinnovarsi. Bologna dovrà diventare una città resiliente, solare e a basso consumo, attraverso interventi in tutti i settori (trasporti, patrimonio edilizio pubblico e privato, spazi aperti, infrastrutture verdi e blu).

La sola realizzazione della linea tranviaria elettrica che attraverserà la città sarà in grado di ridurre le emissioni di oltre 50 mila tonnellate di C02 ogni anno.

In questa città elettrica verranno gradualmente eliminati i carburanti a base di carbonio tramite mezzi alimentati da energia rinnovabile, con l’uso di biogas derivato dai rifiuti organici (che già oggi alimenta molti autobus), con idrogeno verde, ossia prodotto dall’acqua a partire da energie pulite, e con i combustibili prodotti dai sistemi di immagazzinamento che convertono i surplus delle energie rinnovabili in gas (power-to-gas).

I macro-ambiti di intervento del PAESC sono:
a) ondate di calore in ambito urbano, da mitigare mediante interventi mirati all’incremento della fitomassa (alberi), controllo della radiazione solare e di riduzione della vulnerabilità della popolazione mediante sistemi di allerta, di informazione e partecipazione attiva.
b) eventi estremi di pioggia e dissesto idrogeologico, per migliorare la risposta idrologica della città e il drenaggio urbano, anche mediante interventi strutturali, di depavimentazione/desigillazione ecc.
c) carenza e qualità della risorsa idrica, mediante azioni di rinnovo delle reti, riduzione degli sprechi e razionalizzazione dei consumi idrici.
d) rigenerazione degli edifici civili e della relativa dotazione impiantistica, per la riqualificazione energetica profonda degli edifici e la creazione di zone ad energia zero o energia positiva, mediante un set di azioni coordinate di regolamentazione di diffusione delle competenze ecc.
e) produzione di energia da fonti rinnovabili, per aumentare la potenza installata di impianti fotovoltaici anche mediante la promozione dell’autoconsumo collettivo e delle comunità energetiche.
f) decarbonizzazione dei trasporti e mobilità sostenibile, mediante l’elettrificazione e la diversione modale dei trasporti verso il trasporto pubblico e la mobilità ciclabile.
g) edifici comunali e illuminazione pubblica, per la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio pubblico e dei sistemi di illuminazione stradale.
h) transizione energetica nel settore industriale, per il contenimento degli usi finali elettrici ed il sostegno verso progetti di innovazione tecnologica ed il ricorso ai vettori di energia rinnovabili (idrogeno, power to gas e biogas).
Sono infine state individuate sei azioni chiave, ovvero misure di significative che affrontano gli aspetti di mitigazione e adattamento, avviate o già realizzate sul territorio comunale:
1) riqualificazione dell’edilizia residenziale pubblica
2) progetto GECO “Green Energy Community” in zona Roveri
3) linea rossa del tram
4) programmazione di aumento del verde e delle alberature
5) interventi di riduzione del rischio idraulico e idrogeologico e di manutenzione dei rii collinari e del canale Navile
6) recupero delle acque dell’impianto IDAR (impianto di trattamenti dei fanghi industriali di via Shakespeare) nell’ambito dell’accordo di programma regionale. Continua…

Piove sul bagnato

Alluvione in Emilia Romagna

A proposito dei tragici disastri che hanno colpito l’Emilia Romagna in questi giorni sono andato a ripescare ciò che avevo scritto 9 anni orsono, nel 2014 e che mantiene la sua validità.

Lo trascrivo nel seguito:

Ogni volta che nel nostro paese muoiono delle persone a causa di eventi cosiddetti “naturali” (una frana, un’alluvione…..), il che purtroppo accade abbastanza di frequente, si sente ripetere la solita litania: “ci vuole più prevenzione”, “costerebbe meno spendere in prevenzione che riparare i danni, oltre al dramma delle vittime” ecc. ecc. Anche il ministro dell’ambiente Galletti, qualche giorno fa, dopo i morti a causa della piena di un torrente nel trevigiano, non ha saputo andare oltre queste ormai scontate affermazioni, alle quali per la verità ha aggiunto l’impegno del governo a spendere un po’ di risorse già previste per interventi di difesa del suolo ma fin qui bloccate per i vincoli del patto di stabilità.

Credo che un governo come quello di Matteo Renzi debba andare oltre , provando a mettere nella sua agenda anche la riforma di questa materia (la difesa e la sicurezza del suolo e del territorio).

Non credo che si tratti d’inventare granchè di nuovo. Basterebbe prendere sul serio e, finalmente realizzare, quanto a suo tempo previsto in due documenti un po’ datati ma che mantengono intatta, a mio avviso, la loro validità.

Il primo è la ponderosa relazione della Commissione De Marchi, Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo, pensata a valle della disastrosa alluvione del Polesine (1951), istituita nel 1967, dopo i fatti drammatici del novembre 1966 (tra cui l’alluvione di Firenze): la relazione, pubblicata nel 1970, era il frutto di un’ ampia indagine generale del territorio nazionale e, in sintesi, proponeva, proprio per dare corpo al tema della prevenzione, un complesso d’interventi di difesa del suolo (per le diverse categorie di opere) da articolarsi nell’arco di un trentennio, con una intensificazione nei primi cinque anni ed una successiva maggiore diluizione nei successivi 10 e 15 anni. L’importo totale delle opere ammontava a poco meno di 9.000 miliardi di vecchie lire e la raccomandazione principale, completamente disattesa da tutti i governi che si sono succeduti fino ad oggi, era quella di dare continuità all’attuazione del programma.

Il secondo è la legge n.183/1989 (“Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo”), che compie pertanto 25 anni e che prevede soprattutto la necessità che le politiche di difesa del suolo vengano declinate ed attuate tenendo conto della dimensione del bacino idrografico, dando vita, a seconda del rango dei corsi d’acqua interessati, alle Autorità di bacino di livello nazionale, interregionale o regionale.

Vorrei ora provare, sulla base di un’esperienza professionale ormai datata ma, spero, ancora utile, ad esprimere qualche considerazione per chiarire l’articolazione complessa delle problematiche della difesa del suolo, che sembra essere ormai dimenticata e trascurata.

Innazitutto occorre tenere presente che esiste una responsabilità primaria dei privati proprietari dei terreni, sia in montagna che in pianura. A proposito del tragico evento di esondazione del torrente Lierza in provincia di Treviso, costato la morte a quattro persone, si è letto di una possibile concausa attribuita alla proliferazione dei vigneti che avrebbero contribuito ad aggravare gli effetti di una pioggia particolarmente intensa. Io non so se questo possa essere vero, nel caso specifico.

So peraltro che praticamente tutto il territorio collinare e montano del paese è sottoposto a vincolo idrogeologico e che chiunque intenda effettuare movimenti di terreno sulla propria proprietà, deve chiedere un’autorizzazione che viene rilasciata sotto il controllo del C.F.S. (Corpo Forestale dello Stato), il quale, se del caso, impone le necessarie prescrizioni sulla base delle cosiddette Prescrizioni di Massima e di Polizia Forestale, un insieme di norme tecniche finalizzate a garantire la stabilità dei terreni e delle pendici, norme che, ad esempio, vietano determinate modalità di lavorazione dei suoli agricoli in montagna ed impongono precisi criteri di regimazione delle acque a carico dei proprietari. Come spesso accade nel nostro paese, non sono le norme che mancano ma piuttosto gli strumenti e la volontà di applicarle. E’ per questo motivo, ad esempio, che a mio avviso il C.F.S. andrebbe assolutamente potenziato in quanto custode dell’assetto dei terreni collinari e montani e delle zone boscate,ed essendo dotato di adeguata professionalità e dei poteri di polizia giudiziaria.

Un altro organismo tecnico che potrebbe contribuire ad un’ efficace politica preventiva in materia di difesa del suolo sono i Consorzi di bonifica. Si tratta di enti che riuniscono i proprietari dei terreni di una certa zona o bacino idrografico o (in pianura) scolante. Il loro compito è quello di eseguire, in montagna, la manutenzione delle opere idraulico-forestali di competenza dei privati, e, in pianura, la costruzione e la gestione degl’impianti d’irrigazione e di scolo che da un lato sono a servizio delle attività agricole e, dall’altro, evitano che i terreni depressi vengano invasi dalle acque di pioggia. Naturalmente mantenere in vita i Consorzi di Bonifica ha un costo, a carico dei proprietari dei terreni e se in pianura, grazie al reddito dell’attività agricola ed al valore dei terreni, questo risulta economicamente sostenibile, in montagna, per le medesime ragioni, ma in senso opposto, l’attività dei Consorzi è più limitata e meno efficace ed andrebbe sostenuta con contributi pubblici.

Ancora sia in montagna che in pianura si tratta di limitare al massimo l’impermeabilizzazione del territorio, onde evitare la diminuzione dei tempi di corrivazione ed il rischio di piena dei corsi d’acqua. In pianura, se del caso, a fronte di una impermeabilizzazione inevitabile si tratta di prescrivere e d’imporre la realizzazione di vasche di laminazione degli afflussi di pioggia.

Fin qui, sia pure sommariamente, gli obblighi e gl’impegni dei privati.

Ma in materia di difesa del suolo c’è, ovviamente, un imprescindibile ruolo del pubblico.

Intanto gli enti proprietari e gestori d’infrastrutture (strade, autostrade, ferrovie) per garantire la sicurezza delle medesime sono tenuti, soprattutto in montagna, a monitorare la stabilità dei versanti ed eventualmente ad intervenire a proprie spese con le necessarie opere di consolidamento.

Sempre nel territorio montano, in presenza di grossi movimenti franosi la cui stabilizzazione comporta spese insostenibili da parte dei privati, è indispensabile intervenire con fondi pubblici, regionali o statali.

Da ultimo c’è poi il grande tema degli alvei e delle opere idrauliche. I corsi d’acqua scorrono tutti in terreno demaniale e sono pertanto di competenza pubblica (regionale o statale a seconda della loro classificazione). Qui si pone pertanto un altro impegnativo ed oneroso capitolo della difesa del suolo, vale a dire quello della prevenzione delle erosioni alveali (con conseguente crollo di ponti e manufatti), del cedimento o sormonto di argini (con relativi allagamenti ed inondazioni).

Ancora una volta questi fenomeni possono essere causati da un cattivo ed improvvido uso del territorio (insostenibile cementificazione) o da dissennati interventi come il tombamento di torrenti o le costruzioni in zona golenale, il che rinvia a responsabilità politico-amministrative (assenza di pianificazione urbanistica o di controllo edilizio). Ma, detto ciò, compete alle autorità idrauliche (regionali o nazionali) dotarsi di strumenti di previsione delle piene ed intervenire con le necessarie opere idrauliche di difesa e di manutenzione dei corsi d’acqua.

Tutto questo ha un costo non indifferente che va posto a carico della fiscalità generale. E qui torniamo alle conclusioni della Commissione De Marchi, disattese da una politica imprevidente.

Io credo, riprendendo quanto dicevo all’inizio, che il governo Renzi renderebbe un immenso servizio al paese ed acquisirebbe grandi meriti, se in materia di dissesto idrogeologico e di sicurezza del territorio, invece di balbettare come tutti i governi che l’anno preceduto, invocando giustificazioni come i cambiamenti climatici (bombe d’acqua ecc.) che ci sono per davvero ma che rappresentano al massimo un’ attenuante delle responsabilità pubbliche, sapesse pronunciare una coraggiosa parola di consapevolezza e di verità, assumendo di fronte al paese l’impegno ad intraprendere, nonostante le difficoltà della spesa pubblica, una decisa inversione di marcia , rivisitando ed aggiornando, ad esempio, la metodologia utilizzata dalla Commissione De Marchi, mettendo a punto un programma pluriennale d’intervento, sulla base di una scala di priorità e verificando la validità e l’attualità dell’impianto della legge 183, ridefinendo eventualmente con chiarezza il quadro delle competenze istituzionali in materia. Infatti una delle ragioni che spesso bloccano o ritardano gl’interventi in materia di difesa del suolo, oltre alla mancanza di risorse, è l’incertezza su chi debba intervenire, la confusione e lo “scaricabarile” delle competenze, tanto che non è esagerato affermare che il dissesto del territorio è anche il frutto di una sorta di “dissesto istituzionale” che affligge il nostro paese.

Pochi mesi dopo il governo Renzi istituì l’unità di missione Italia Sicura. Ecco ciò che scrissi a commento:

E’ ancora presto per affermare che il governo Renzi ha cambiato passo. Voglio comunque sperare che l’istituzione della Struttura di Missione “Italia Sicura” presso la presidenza del Consiglio rappresenti il segno di una presa di coscienza della priorità che la lotta contro il dissesto idrogeologico rappresenta per il nostro paese.

Naturalmente il governo Conte1 si affrettò a cancellare la struttura di missione “Italia sicura”………..